Ci sono momenti in cui uno riesce a comprendere in maniera completa il significato di certi modi di dire.
La locuzione “circo della politica”, usata per indicare la spettacolarizzazione delle posizioni dei vari protagonisti nell’agone politico, si coglie pienamente solo quando si vedono i pagliacci all’opera.
Questo è quello a cui abbiamo assistito, la sera del 26 settembre, quando si sono affacciati da un balcone di palazzo Chigi i ministri grillini osannati da una piccola folla di starnazzanti parlamentari dello stesso partito e celebrati da un nugolo di giornalisti pronti a solennizzare lo storico momento.
Ad ascoltare le roboanti dichiarazioni rilasciate in quell’occasione (“aboliremo la povertà”, “faremo la manovra del popolo”), un passante si sarebbe sicuramente chiesto quale storico momento stesse vivendo. Il bello di quando i pagliacci prendono il potere è che, invece, non è successo assolutamente nulla!
Il governo aveva semplicemente approvato la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza in cui portava il rapporto deficit/PIL dall’1,6% al 2,4%.
Per i non addetti ai lavori e per i laziali spieghiamo meglio di cosa si tratta.
Ogni anno, entro il 10 aprile, il governo deve presentare il Documento di Economia e Finanza che indica quali saranno, negli anni a venire, gli andamenti economici del paese e della finanza pubblica. Lì sono indicate le previsioni per la crescita del PIL (che è quanto produce un paese), quale sarà l’inflazione, quali i tassi d’interesse e a quanto ammonterà il deficit pubblico (la differenza tra le entrate e le spese dello stato).
Siccome si tratta di previsioni soggette a variazioni, si è anche stabilito che, ogni anno, entro il 27 settembre, queste previsioni vengano aggiornate in base a quello che è stato l’andamento reale dell’economia.
Il governo Gentiloni aveva presentato il DEF ad aprile scorso prevedendo alcuni valori per tutti questi indicatori. Tra questi c’è quello che prevedeva, per il 2019, un rapporto deficit/PIL all’1,6 %. Il consiglio dei ministri del governo Conte ha deciso che sarà del 2,4%.
Tanto per inquadrare la “storicità” del momento il 2,4% previsto nel 2019 va paragonato con il 2,5% che c’è stato nel 2016 e il 2,3% del 2017. Anni appena trascorsi in cui non abbiamo memoria di abbondanza e ricchezza diffusa.
Siccome con i grillini uno non è mai certo di dove cominci l’idiozia e dove finisca lo spettacolo è evidente la loro volontà di smarcarsi da un governo che, finora, ha avuto solo una caratterizzazione razzista e la povertà l’ha combattuta arrestando i poveri o sfrattandoli perché non potevano pagare l’affitto.
Questi pagliacci devono aver pensato che, aumentando la spesa finanziata in deficit, si sarebbero trovate le risorse per dare una parvenza “sociale” alla loro presenza al governo.
La loro esultanza avrà probabilmente vita breve visto che i soldi disponibili saranno meno di quelli attesi.
Una parte delle minori risorse è dovuta al fatto che il PIL sarà inferiore alle previsioni per la minor crescita del PIL reale e dell’inflazione: invece del 3,3% sarà del 2,7 %.
La grossa parte delle minori disponibilità deriva invece dal fatto che nel 2019 si spenderà di più per gli interessi del debito pubblico. Nell’ultimo anno i tassi d’interesse sono saliti di un punto e mezzo (adesso sono al 3%) mentre, nella precedente versione del DEF, ci si aspettava una diminuzione della spesa.
In più nel 2019 è attesa la fine degli acquisti di titoli di stato da parte della Banca Centrale Europea e questo comporterà il rialzo dello spread ed una maggiore sensibilità ai giudizi delle agenzie di rating. Per questo motivo il ministro del Tesoro ed alcuni tecnici del MEF (poi accusati sulla stampa di “remare contro”) consideravano opportuno oltre che il rispetto dei parametri di Maastricht (che prevedono un rapporto deficit/PIL inferiore al 3%), anche l’avvicinamento ai parametri previsti da fiscal compact (rapporto deficit/PIL dello 0,5%).
In ogni caso entro il 15 ottobre il governo dovrà presentare all’Unione Europea il Documento Programmatico di Bilancio e vedremo come avranno deciso di giocarsi la partita dei conti. O metteranno dei dati realistici per le varie poste e si accorgeranno che non ci sono abbastanza soldi per mantenere le promesse fatte o faranno finta di nulla, accusando i “poteri forty” di volerli boicottare.
E poi faranno, nella migliore tradizione democristiana, una manovra aggiuntiva nel corso del 2019.
Quale che sia la scelta propagandistica che utilizzeranno, i provvedimenti che saranno adottati nella legge di bilancio serviranno solo a far finta di aver mantenuto le promesse elettorali cambiando poco e nulla della situazione reale.
L’attesa riforma delle pensioni con “quota 100” viene presentata in modo diverso a seconda dell’esponente politico intervistato. L’intenzione pubblicitaria è di porre pari a 100 la somma degli anni dei contributi versati e dell’età anagrafica per andare in pensione. Già sul numero minimo di anni di contribuzione le opinioni divergono: c’è chi dice che ci vorranno almeno 38 anni di contributi, chi dice che ne basteranno 36. Su una cosa però sono tutti d’accordo: non verranno modificati i coefficienti di trasformazione utilizzati per il calcolo della pensione effettiva. Questo significa che ci sarà una forte penalizzazione per chi andrà in pensione prima dei 67 anni.
Tanto per capirci, lo stipendio su cui si calcola la pensione non è quello realmente percepito: vanno escluse una serie di indennità, i turni, le reperibilità, gli straordinari, le gratifiche, i buoni mensa, ecc. per cui, anche se uno avesse diritto ad una pensione pari al 100% dello stipendio prenderebbe comunque dei soldi in meno (pochi o tanti dipendono dal tipo di lavoro).
Chi va in pensione adesso, a 67 anni con 40 anni di contributi (“quota 107”), grosso modo prende come pensione il 74% dello stipendio depurato dalle poste dette sopra. Chi andrà in pensione con “quota 100” prenderà circa il 60% dello stipendio (cioè, tutto compreso, il 50% dello stipendio che prende ogni mese). E, per disincentivare ulteriormente, vogliono introdurre anche delle ulteriori penalizzazioni per chi andrà in pensione prima dei 67 anni. Salvo casi particolari (lavoratori che hanno iniziato da giovani ed hanno lavorato 40 anni senza interruzioni) è evidente che alla maggior parte delle persone converrà continuare a lavorare per altri 3/4 anni per avere una pensione che non sia pari alla metà dell’ultimo stipendio. C’è anche da verificare cosa succederà a chi fa un lavoro “usurante” (come gli ex-esposti all’amianto) che già oggi vanno in pensione prima e che potrebbero essere coinvolti nella nuova disciplina rimanendo penalizzati.
È ancora più inconsistente il “reddito di cittadinanza” proposto dai 5 stelle. In campagna elettorale era stato presentato come un reddito mensile che avrebbe percepito chiunque cercasse un lavoro senza trovarlo. Nelle versioni successive era destinato ai 9 milioni e 368 mila poveri “relativi”. Poi è diventata appannaggio solo dei 5 milioni e 58 mila poveri “assoluti”. Poi solo dei 3 milioni e mezzo di poveri assoluti “italiani”: infatti, indipendentemente dalla propaganda leghista sulla “pacchia” in cui vivono gli immigrati, in Italia un milione e mezzo di immigrati vive in condizione di povertà assoluta. Il fatto, poi, di perderlo dopo tre lavori rifiutati fa pensare che verranno fatte proposte di lavoro senza tener conto delle capacità personali o della residenza degli individui: verosimilmente verranno offerti lavori precari, dequalificati e sottopagati in regioni diverse per ottenere dei rifiuti e diminuire la platea degli aventi diritto.
Dato il quotidiano stillicidio degli annunci, dovremo necessariamente aspettare i prossimi mesi per vedere i requisiti effettivi per ottenere il reddito di cittadinanza: per adesso non c’è nulla, tranne il razzismo di cui ammantano questo nulla.
Speriamo che la reazione a questa situazione non sia l’aumento dei casi di coulrofobia (fobia dei clown), ma la voglia di riappropriarsi di spazi di libertà attraverso la lotta.
L’autunno è appena cominciato. Dipende solo da noi se sarà caldo o meno.
Fricche